Poesie
Da L’amore e altro, Vallecchi, 1975
PECCATO IDEALE
Taci. L’eco fra i monti è inaspettata e ha dimensioni paurose. Conosce anche le vie traverse. Ecco, qui non arriva l’uggioso pigolio dei polli. Solo il cuculo da quei boschi di castagni beffeggia il silenzio elettrico e fondo. Sediamoci dove il pendio è più ripido dove il fieno è più alto, sì che l’erba fiorita ci nasconda e ci penetri l’umida terra. Mi aggrediranno gli insetti e la mia bianca pelle si macchierà si gonfierà. No, non voglio vederti gli occhi, anzi tu con questi lunghi fili verdi maschera anche i miei. Conosco a memoria il tuo volto, è quello dell’altro sesso. Bisogna non pensare perché il sangue si muova veloce. Sento così la gola dilatarsi quando scorro coi denti sopra le gote non rasate, sento le ginocchia indebolirsi quando accarezzo il collo virile, sento che la nausea mi assale quando con l’unghie scalfisco e tolgo il sangue dall’epidermide calda e villosa del tuo corpo. Sotto alle tue dolcezze senza volere né vita ho lasciato che la mia testa picchiasse contro i sassi ed ora muoio liberamente animalescamente sotto la furia dell’amplesso che uccide ogni nostro distacco dalle cose che hanno nome pianta pietra ed acqua di sorgente.
LETTERA
Ed ora ascolta bene cambierò i tuoi colori e muterò il tuo nome. Se mani non amiche o cuori cupi od anime troppo vegetali toglieranno la carta con le mie parole da un qualunque cassetto, falso il nome e i colori non sapranno di te. Dio mio quanto timore ma parlerò mia sfinge. In fondo non voglio che mi accarezzi ma solo che mi ascolti. Bianco nei gesti con il capo di rame e con certi riflessi di lama in bocca e nel sorriso. Sfinge ti amo. Dal grigio dei vestiti occhieggia sempre un grammo di colore e ridono i tuoi rami e fuma nel tuo raggio la nebbia tanto sei teso e convulso ma i globi del tuo sguardo assorti in geometrie sognando dissolutamente lottando puerilmente con la fatica adulta dei pensieri, stanno, in quei colori belli che non dico già sfumati nell’oppio.
L’OMBRA
Sui pampini color vermiglio cupo il sole si levava. Tre monache a narrare delle loro bambine mutilate e una donna robusta a cullare il suo cucciolo rosso. Ti pensavo molle e saldo.
Un paradiso di gelsi e di pioppi a specchio sopra l’acqua degli stagni, stagni venuti da sotto la terra alla stagione opaca, terra argillosa preda del suo fiume. Ti disegnavo libero e sprezzante.
Fiume fiume fiume, isole dai crinali già assorbiti nella gamma di tutti i giallo terra dense correnti barche zingaresche. Tu ritraevi ed io giocavo intorno ai monti della sabbia.
Nubi volubili e mute attratte dall’incendio dell’occaso, tanti piolini bianchi ed una striscia lunga senza fine. Buono imbronciato e pallido ti ho visto seduto in corsa in mezzo agli elementi e fondere e esser fuso.
Una folla discreta che io misuro, di media età di peso e di salute media. Con i tendini tesi son fra loro scettica verso l’apparente lindore e il parlare cortese e gli slanci, già di nuovo in cammino per la mia fortezza convinta di potermi d’ora in poi raccontare l’amore. Ma ti immagino spesso rabbrividire al freddo carezzare le carni per spillarne la gioia saltare da una tana pubblica all’altra ad arricchire i tuoi frammenti di tempo.
VOLTANDOMI
Si canta il corpo dell’uomo? Non so. Certo che senza ramo non vi sono serpi senza foglia farfalla senza parete arazzo. Mi sono riscaldata alle tue mani lungamente in una sera che con tante sere fu l’orlo della mia libertà. Mi hai offerto tutte le carezze quando io deliravo tutti i baci quando le piaghe accese mandavano gli ultimi guizzi hai cantato per me come una balia quando non ero ritornata al mondo. Eri il sangue la vita il tronco forte della mia stessa origine plebea l’esperto cacciatore il vizioso il pane insomma per il mio agonizzante digiuno. T’ho perduto e fu l’ultima beffa del padrone i miei conti con lui non erano saldati. Vorrei che non avessi scoperto i miei incerti e nascosti profumi di anacoreta. Non hai capito forse? O nel languore smorto della tua mondanità hai temuto gli artigli dell’anima? L’avrei dimenticata credi e ti avrei offerto un banchetto di gioia. Tu piccolo borghese dai denti bianchi e dalla bocca calda vivrai senza saperlo un’altra vita. Dimmi proprio non senti mai questo pungente odore di bosco questo scrosciare d’acque questi ululati di piacere e queste risa?
BALIA
Balia non mi ricordi? Tu mi rendesti a un anno di tredici chili alla famiglia tu mi correvi incontro, ma ti dico correvi, saltando dalla sedia dove stavi a far treccia con le amiche quando svoltavo in cima alla tua strada. Una specie di strada con case ed orti da una parte e i campi dall’altra. Rossi i capelli tesi nella crocchia e uno strano colore negli occhi che nella gioia strizzavi, forse un grigio. Ruvida tutta dalle mani al viso e mi amavi con poche parole. Poi crebbi e dal paesone venni in città, ti disamorasti un poco. Convalescente di una malattia ti fui mandata con pochi quattrini per stare fra i tuoi campi qualche giorno. Non sembravo a tua figlia abbastanza elegante il mio parlare bene vi mise soggezione vi dette tanta noia la mia povertà istruita. Tuo marito pietoso ma un po’ meno forte dovette soffrire e tacere quando eravamo a veglia nella corte e tu pensavi solo a quelle più piccine e le cullavi. Col mio ritorno ci dicemmo addio.
TRE TEMPI
Scelgo la convivenza e assimilo il rancore di chi fa un mito della violenza consumo i passi per mostrarmi ai più schivi e lontani è doloroso come doversi masticare la coda o fare un cerchio all’indietro con le vertebre proprie tento di raccontare la vicenda di avere attenzione pietà tento di emergere me poi mi scopro un pessimo animale dai congegni interni di rara bellezza che dalla sua confusa porzione di spazio con poco sforzo può vedere intorno sondare indovinare il pudore trionfa ed ancora mi adagio e consento alla gioia.
MATURITÀ
E sono ritornata a rosicchiare gli ossi da una superbia di arcangelo contro l’aria ed i monti ho scoperto di essere matura non c’è più attesa di imprevisti carnali urge senza rumore la scoperta di un’ anima che leghi tutto quanto ha peso dalla mia nonna fino alle parole che mi dovranno un dì simboleggiare.
DOMENICA IN CAMPAGNA
Quando è l’ora di siesta e tenui connessure di mattoni fra i travi vegliano il mio sudore gli occhi posando sopra macchie murali di stanchezza e le nari aspirando gli odori dello scarico seccati dal sole da quel modo che hanno cose e persone senza fama di mantenersi leggere e aderenti a geometrici piani universali dal respiro monotono e largo dagli attimi fermi dalla disciplinata libertà dei poveri su me viene la pace.
Da L’Arca di Noè, Gazebo, 1986
III (Poesie salvate)
Io so di quella moltitudine
di teste appena nate
dai colori già colmi di luce
scampanellanti un suono
multiplo e chiassoso.
È come se aspettassi
ora che guardo a chi tramonta
e vo facendomi densa esclusiva
di tornare fra loro
e ciò mi strappa il riso.
IV
L’eco rivela profondità
il boato rivela i marosi
certe mie vibrazioni sorde
svelano la solitudine.
Essendo libera da compagnie
in me si anima il cosmo
come un cenno di morte personale.
È un’esperienza senza la cronaca
una ricchezza da non palpare
un sorridere più intensamente.
VI
Si nasce nelle case
ma in povertà assoluta
manca perfino l’amore fra i grandi
ci soffia addosso in maniera spietata
il vento della libertà
fora le carni tenere
nascono allora gli anticorpi
chicchi salati
germi della immaginazione
che esplode ad ogni esperienza.
Se mancano mattoni
portiamo noi le pietre da lontano
e ci bastano sguardi curiosi
o l’avere incrociato un fiato caldo
per rimanere in moto anche la notte.
XIV
Io lo vedete mi concedo
e pratico la buona volontà
verrò dove voi mi condurrete
da qualche giorno poi vi seguo
a bordo di un motore piccolo
ma grande da rendermi uguale
ho molta paura di voi
ma non mi perderete
fino a spellarmi resterò aggrappata.
XVIII
E allora che salga!
Ha l’aspetto di una medusa.
Se fora il liquido gelatinoso
il gioco di sempre incomincia.
Il vento lo asciuga
la terra lo accoglie
la pietra lo tiene
l’erba lo sfiora
il sole lo scalda
la pioggia lo lava.
Per un po’ egli resta con noi
e si dice che viva.
XXI
Da squarci nell’orgoglio
ci siamo visti deboli
è allora che è venuta
la paura del sonno
si vorrebbe una morte
sana e breve.
IV (Ritagli epistolari)
Porteremo la navicella
secondo i venti dell’oceano
poiché frenare te stessa
è cosa che non puoi più fare
dal nostro incontro
il tuo viso è rifiorito.
VIII
L’amore ha un’ eco
e il tuo vecchio fanciullo
ti vuole operosa
io ti sono affidato
e credo in te
ho bisogno di respirare
di sentire che dentro mi cadono
le gocce della calma.
Da In mezzo al cerchio, Caratteri, 1989
SONO SPIATA
Donne antiche tribali in cerca della mia cordialità sanno di
quanto sia sicura la ventata la gioia ma vogliono aperta la
capanna che io viva di me non è tollerato.
Eppure dai silenzi dal vuoto del mio fare teatro dentro i
cantucci delle piazze grandi partono cavi luminosi forti
laser azzurro verde a unire volti meticci.
Si consuma il sale cresce la sete essere fatti di fuoco è
come la fragilità come la scienza del provvisorio e intanto
ascolto rondini e cornacchie sera e mattina.
No inutile no la tenerezza ansia e stupore l’eco di quando si
aspettava la vita fra acque dense meglio non sia nominata è
violenza oratoria poi nemmeno si sa se la parola sia quella.
luglio 86 – 3
UN CERTO FUTURO
Le hanno portate quassù con vetture private o ambulanze le
teste e le hanno messe in fila ancora calde assenti disuguali
le teste dei vecchi.
Mi ignorano e si prendono gioco di me sorridendo verso
nessuno preparando la smorfia e la postura onde evitare
coinvolgimenti fare finta di nulla se il liquido spande.
Provo a captare le vibrazioni che dai cervelli vengono
emanate trovo pianure senza ingresso o uscita dove
muoversi è come bollire.
Ci sfuggono e hanno avuto la resistenza il godimento
immagino allora di aprirli nel petto per impugnare la prova
e la mano insistente si arrossa e ne brucia.
novembre 86 – 10
LA SOSTA
È sudore ostinato è frutto di elezione fare lucide e antiche
mattonelle e mantenere bianche le pareti un po’ torte
sedurre con verdi ed arancio.
giugno 87 – 30
EPICA
Tu capo anonimo dei tanti guerrieri che non hanno divisa e
dispersi consumano sfide irridendo morte e paura tu sei da
tempo il numero mille e cinquecento.
Guardi ad est ai tuoi sogni beffardo per chi ti ricorda nel
viso riguardo ai riti ai fiorellini ma non avesti le ceneri al
vento poiché inesperto di volontà redatte.
Un errato destino in apparenza ma quando rotola l’aria a
folate e dal nord accanita discende a squarciare le zone più
dolci è davanti alla lapide tua che sospende e si volta.
Sta collocato sopra alla terra il campo dei tuoi cavalieri e tu
che non sapevi di astrattezze fu in risposta a una sorta di
fede che eruttasti i dinieghi eternando la tua resistenza.
dicembre 87 – 43
IL SALENTO DI ALLORA
Guardavo il bianco di muri e di strade frenavo il dilatare
delle pupille misuravo l’aprire delle braccia e praticavo un
aspirare leggero.
Guai se dovesse andare disperso l’effetto d’ombra totale
tagliente nonché l’inganno di distensioni dove l’agglomerato
e il campanile salgono quanto basta a un saluto.
Incredibile il basso livello dei suoni la quantità di cravatte e
abiti scuri a punteggiare un vento misurato sopra il rapporto
fra il mare e gli olivi.
Si perdette la divisione dei luoghi l’aria mi trapassò
musicalmente occupavo la terra per intero con la pianta dei
piedi aderente rovente.
dicembre 87 – 45
DOPO IL GHIACCIAIO
Ebbi amici e il loro vento caldo addosso come ebbi carezze
venali e ancora angoscia poiché la moneta non bastava e
faticosa attenzione alla salute che il corpo ha da vegetare.
Ecco sono bambina ed ascolto i racconti e indovino che a
volte mi si inganna e si mette una invenzione al posto dello
evento reale così come un dono un richiamo uno stimolo
d’oro.
Io tuttora non sono in possesso di una fila di fatti lunga
quanto una fune che sia sufficiente per l’evasione dal
carcere la mia vita non è consumata la memoria è soltanto
parziale.
Memoria vi ho detto ragazzi cioè quella cosa che viene da
prima e che dopo vivrà per la quale si dice che ognuno è
sé stesso ma è anche coloro che già lo stanno dimenticando.
maggio 88 – 50
Da Tre voci e una mano (dialoghi in poesia),Edizioni del Leone, 1990
COME VORREI L’AMORE
Un prato sotto al lume rosso della sera
con nuvoline bianche accanto a un albero
del vino giovinello e un bel ragazzone
di occhi scuri pelle liscia denti forti
dopo guardare il cielo che cammina
il viso sulla pancina calda di lui.
Una cenetta e un bel dialogare
ambiente estetico dalla finestra
luce di luna fino al letto
e calore freschezza profumi
le mani di lui eleganti e ossute
coccolarsi poco e guardarsi molto.
dialogo n. 2
FUTURO
So che un amico di vecchia data un giorno esclamò
«ma tu non fai che muoverti faticare decidere e
mi domando se durante l’amore puoi abbandonarti».
Da allora ho chiesto a me stessa dove sto andando
la risposta è «corro incontro alla tranquillità».
Finito il matrimonio queste due diverse persone
venenti da due mondi e incapaci nel comunicare
si divideranno con occhiate forse di tenerezza.
Diventerò prudente gli altri saranno considerati
con sguardo ormai capace spero del giusto distacco
solo così lo sento uscirà il mio nettare migliore
ossia la creatura che ho dentro viva e odorosa
ma nascosta da ansie dai modi usuali aggressivi.
dialogo n. 38
L’ANIMALE DENTRO
Io all’interno ho una capretta anzi sono capretta.
Se tirano la corda mi impenno mi arrabbio e cerco
di andare a tutti i costi nell’altra direzione
ho voglia di agitare saltare puntare corna e zoccoli
ho bisogno di aria e di spazio tutto per me.
Ma tu non hai il naso e gli occhi di forma allungata
non guardi sempre e soltanto con ostinazione
hai gli occhi rotondi caldi commossi come fossero
quelli di un capriolo spiega dunque la differenza.
Non ve la spiego e non mi importa capire
anche ci fosse di mezzo la paura non mi fa male
se resto un animale se resto una bambina.
L’animale che io sono è invece un grosso felino.
Solitaria mi aggiro nel folto e mi poso sugli alberi
non ho fretta e mi piace la preda uccisa trascinarla
in un luogo appartato dove gustare il mio pasto.
L’uomo per ora mi serve a questa sorta di rito
mostrarmi avanti con morbidezza eleganza ed enigma
poi fugare di nuovo la infida presenza maschile
rientrare al mio interno e ritrovarmi sola
per convincermi a non contare su l’altra metà.
Se il padre non mi vuole io non devo volerlo
immaginarmi un incontro tra noi mi sconvolge
non sarebbe una gioia che conosco che mi appartiene.
dialogo n. 20
Da Diamanti, Masso delle Fate, 1994
DIALOGAMMO
Mi accompagnano lunghe ore brevi
mi chiama il mare della solitudine
la vita è solo un leggero cammino
e vagabonda per via mi rapirono.
Sangue ho colore della terra arata
sai che verrà improvviso il nulla
non lasciarti sfuggire il mio pensiero
benedicimi tu nei giorni nostri.
Entrerò nei tuoi sogni ed amori
mi inviterai presso te con pudore
madre futura ho gli occhi di gazzella
nacqui alla tua alla vostra luce.
RETROSGUARDO
Non offrendo minacce
poiché sicure ed umili
lo so mi stancheranno
queste pareti di casa.
Distrazioni protette
dai sensi la purezza
torna nei biancorossi
quadretti di grembiule.
Fisso stupore angelico
sordi fruscii volontà
umano corpo è freccia
sibila passa e brilla.
FRAINTENDIMENTI
A chi ubbidisci nube
quale testimonianza
di moto libero rendi
mimando gli extraumani.
Va raccontando Leonessa
con difettosa favella
nella pazzia si ragiona
usando dimensione altra.
Domanda sia la maniera
se ha senso il pregare
si muore o ci si cambia?
l’ansia scivola in sogno.
VIAGGIO AD ARARAT
(trovarsi nelle foto di un amico)
II
Non si sfugge alle povere cose
quelle che fanno grandi le distanze.
La cattedrale ha forse dei giganti
a darle senso o schiere di demoni.
Ma la case le case e i camini
finestre tubi antenne hanno di noi
sono codici chiari nel mistero
consumatrici di umane presenze.
Non pregate guardando ai cimiteri
ma toccando sugli angoli le case.
Io posseggo una croce verde e obliqua
il mio amico la taglia a metà
si legge vòltati vigila vai vedi.
IL NERO
E venne l’anno dell’avvento
si cacciarono paure vecchie
e realizzammo imprese nuove
si cercò il nero ansiosi
e istericamente felici
lo rivestimmo con resine
per conferirgli lucentezza
fu lui la casa del colore.
IL BIANCO
Vicino essendo in maggio volava la bambagia
lontano essendo suolo marino sabbia s’alzava
pecore e capre a far pascolo con tintinnio breve
volle il tempo bizzarro cortei di nubi a fiocco
ma il bianco esplose in un passaggio di cavalli
al trotto giunti dal passato portanti cavalieri
con i mantelli candidi e gonfi tesi alle correnti
ai prati trasparenti e fatti di misure inumane.
IL SOGNO
Leggera nausea profumata
mani a levarsi su nel vuoto
capriole in assenza gravità
non durerà più di una notte
dopo l’eternità il rientro
a incerte solite pressioni
la morte prende e riavvolge
colui che imparò a volare.
Da Paesaggio mobile, Tabula Fati, 1999
DAL PASSATO
Figli questo è il pane!
condito con il sangue del pomodoro
con la luce dell’olio
con la rugiada del sale.
Dopo la sosta andate
e che sia sempre più lontano.
Tendete le mie carni e laceratele.
Vorrei vi fosse rivelato il mondo.
NEL FUTURO (su un acquerello di Barbara)
C’era un ragazzo allegro che voleva
muoversi e camminare nudo per le vie
ma la vergogna degli altri disse no.
C’era un villaggio chiaro ed accogliente
con i muri gonfiati per l’affollamento
ad un cambio di civiltà rimase vuoto.
E c’era un cielo tutto d’innocenza
diventato color del ferro e opaco
per le ostinate cieche esalazioni.
Nacque un amore fra i tre personaggi
e si ebbero gli uomini-nubi l’àere di
calcina secca dorata case di carne.
L’INNOCENTE
Tieni ho fatto un disegno.
Belli che cosa sono?
Son bambini bambini.
Tieni ho fatto un disegno.
Sono sempre bambini?
Sì bambini bambini.
Tieni ho fatto un disegno.
Ora hai messo una stella
insieme ai tuoi bambini.
Sì una stella una stella.
Tieni ho fatto un disegno.
Son bambini e ciliege!
Sì ciliege ciliegie.
Tieni ho fatto un disegno.
Accanto ai bimbi fiori
dentro un quadrato verde.
È una casa una casa.
I bambini la stella
le ciliege e una casa.
Brava Rosita brava.
LUI
No non dico di un luogo
dove puntare il dito
dove premere il piede.
Io del Logos dico
che è interno e mi contiene.
Dico di spazi dove
un punto di solidità
una pedana o un suolo
mi sorregge e mi tiene
in altalena fra di voi.
Voi del creare inconsapevole
voi della morte esercitata
voi dell’amore necessario.
Caldi frammenti i visi.
Questo ch’è stanco e sereno
e angelico e maschio
versa messaggi plurimi
rispende nel silenzio
promuove le correnti
attese amare a tenere.
IL CORRIDOIO DEL CARCERE
Ragazzi maledetti e sorridenti
giocavano con me minuti fa.
Giocavamo a parlare in poesia
non le rime ma i fatti
le immagini e il sentire.
Era la gola un nodo di passione
e l’orgoglio spingeva a soluzioni.
Ci si incrociava fra di noi nel dire.
M’hanno amata obbedita e derisa.
Una chitarra bonaria e qualunque
ha scosso e fatto l’aria a onde.
Siamo intensi siamo lavati.
Io ho scolpito gli umani profili
con la punta di biro su un foglio.
Ora cammino lenta in mezzo a loro.
Mi sovrastano con la statura
danzano trasandati ed hanno
magliette personalizzate. Hanno
gambe abbronzate coperte e scoperte.
Legami come fili laseriani
qui verranno interrotti e dureranno.
Non è mai stato da noi dichiarato
ma anime siamo.
SCENEGGIATURA
Io e te eravamo ma quando
in una piazza sulle palafitte
col suolo in assi di castagno.
L’ora qual è dicemmo
ma non trovammo i quadranti.
E il tempo non inquadrato
fluttuava di nebbie colorate.
Fischiò per divertirsi il vento
ma non si fece avvertire.
Passarono dei getti orizzontali
fatti pensate d’acqua e di cristalli.
Eravamo al principio della terra
per dire al primo incontro nostro.
La tua voce che ancora non staccava
E il tuo parlare un nascere ogni volta.
I miei piedi sfuggenti ottimisti
che danzavano nello scivolare.
Con la paura il ritmo la speranza
della lepre che aspetta la caccia
totalmente all’amore ci demmo.
Gli elementi acquistarono il peso
vita riconoscibile nacque.
Avevamo fondato il paradiso.
INCONTRO 63
(per Padre Balducci)
Si saliva in odore di sapone
ed in polvere nera di brace.
Si arrivava alle assi-pavimento
su dell’ultima stanza.
Eravamo ricordo in Sangallo.
Lui grosso infastidito
da un’abbondante veste nera.
Noi silenziosi ansiosi
in una convinzione dolorosa.
A volte si avvertiva il mormorio
di menti scettiche conservatrici.
Ma un dopocena venne in cui
la voce che scendeva
da un volto in sudore
ci disse «l’ateismo è solo
risposta a un certo teismo».
Dentro di me che quasi
non esistevo nel gruppo
caddero i muri divisori
ed un tacito pianto prolungato
mi rese fresca e feconda.
Come mi avesse battezzato un Eremita.
CHIEDO VITA
Io risi e mia madre
scandalizzata mi disse
lo sai che siamo una famiglia triste.
Io risi e mio padre mi favorì
ma fece subito dopo
i suoi racconti dell’ira.
Io risi e l’insegnante mi ricordò
che ero della categoria dei bravi.
Io risi e il capoufficio più una zia
dubitarono che avrei avuto facilmente
la carriera e il matrimonio.
Io risi e i compagni del sindacato
si chiesero qual era il mio pensiero.
Io risi e un’amica garbata
si rose per la gelosia.
Io risi e il mio amante gridò
tu non mi ascolti e non mi segui.
Io rido e sconcerto gli intellettuali
perché nego la virtualità.
Io rido e so di ferire
di aprire la zolla.
Rido per seminare.
Sarò felice domani.
I salmi laici, 1995-1998
PRONUNCIAMENTO PRIMO
I. Ora per cominciare io parlerò di Povertà e di Regno
Vi furono all’origine dei tempi degli uomini-Re
che non avessero la forza della propria nudità?
II. Eppure o mio Fratello senza il nostro possesso
di tre paia di lenzuoli di un bianco qualunque
non saremmo mai stati dichiarati cittadini.
III. Dice una mia compagna di ambiente letterario
che conta ciò che è luce senza visione d’astro
ciò che è voce e contatto senza corporalità.
IV. Io rozza e con imbarazzo rimango ad ascoltarla
regredisco alla fase bambina e curiosa
annuso tocco e spio con lo sguardo d’intorno.
V. Mi lascio attraversare da messaggi e segni cifrati
(spinto dal tramontano il piccione accorcia il volo
e il cane punta i piedi e aspira occhi socchiusi).
VI. Il me animale vi incontra in un modo indicibile
dentro allo spazio vaporoso legante e sovrastante
il suolo o superficie che è copertura d’abissi.
Poi l’uomo-donna che sono si pone a interrogarmi
mi spinge a imporre nomi alle figure e ai fatti
a mascherare con mediocrità dei vuoti sacri.
Un amico di ambiente affatto letterario
mi ha detto che poesia è non aver da dire
e un ghettizzato lega con parole il bene e il male.
IX. Aiutatemi voi gente senza certezze né porpora
a non offendere la morte con atti di superbia
a non considerarmi abitatrice di assoluti diritti.
X. Vi faccio una proposta riguardante la non-rinuncia
il piacere dei sensi ch’è equilibrio matematico
e accolto in umiltà diviene filo armonico.
XI. Prima però bisogna prepararci e purificarci
attraverso l’incrocio di parole esplodenti e
balbettate in sintonia con lo sguardo frontale.
XII. Pensiamo a due creature sesso diverso lotta e bisogno
che passano una notte a pelle calda in semioscurità.
Parlano con il silenzio hanno sonni improvvisi.
Ogni gesto d’amore è ghianda e spigo per l’inverno.
È una pezza di seta comprata al mercato lontano
nel corso di un viaggio che sospende l’intimo esilio.
PRONUNCIAMENTO TERZO
I. Senza averli cercati ecco davanti Ironia e Convenzione
come dire che il sale che condisce e stimola
è sceso ad anticipare elegantemente la pietanza.
II. C’è un’unità di tempo che è chiamata quotidianità
e se io volessi a mezzo di figure luci e colori
fermarla su una parete di roccia subito non potrei.
III. Mi dovrei preparare con digiuni stille di sangue
forse lavaggi con foglie di platani e di fico
sì perché una giornata qualunque è un’apocalisse.
IV. E fu da sempre legge dura legge in secoli attuali
che si dovesse dare suono e aspetto all’ansia
quella che l’animale vive per la sopravvivenza.
V. L’uomo ergendosi e sfoltendosi bello divenne
ed acquistò lo sguardo del dominio planetario
e aprì in tono beffardo la via dell’autopunizione.
VI. Si diceva di estranee città di case asfittiche
di rifiuti montanti a ricostituire il rustico
un animato e inconscio rigoglio non più vegetale.
Si diceva di pallidi flussi d’aria tubificata
di morbidezze da rettile e di estetica replicata
il tutto che nasconde dolcemente timbri e bolli.
Intendiamoci oramai scorre veemente la protesta
valvola scarico illusione abuso della libertà
protesta che si fa ridicola e ha ritorni singhiozzanti.
IX. La civiltà come doppio legame e schizogena
l’omaggio falso come ricerca di cibo e rifugio
selezione a rovescio che diminuisce i bambini.
X. Non può salvarci l’amore poiché la sua natura
non permette il confronto il diretto gioco di lame
fuoco con acqua è azzeramento è il nulla.
XI. Benedico lo scetticismo di amici prestigiatori
e prestigiosi illuminati monaci della convivenza
missionari che han scelto terra propria a rischio.
XII. Oso propormi al convito e ho viso che ride
cerco di darmi formazione informale apolidea
metto in boccette piccole frizzanti amari elisir.
Battezzerò farisei recalcitranti e rètori ostili
mi lascerò sputacchiare dai deboli furbi
ma sarò stata fra gli atomi che sono e fanno essere.
Da Dalla terra muovo, Book editore, 2003
PROLOGO
Sì, scenderò verso di te suolo terrestre
non zolla ed erba ma pietra ed asfalto
dal respiro alterato persistente.
Mia placenta deforme ed ostinata
mostro paziente di maternità.
Farò ancora un ritorno da siderali pensieri
onde resti frenato il suicidio di carne.
Ma tu devi capirlo tu base culla
e ventre che questa mia materia
è stanca come la tua in quanto che
per esserti fedele io non posso non
addossarmi la tua stessa età.
MIRÒ MIRÒ
E se prima del prima fosse la mia terra
stata impastata solo con la carne resterebbe
spiegata questa fame di congiungimento.
Lei la Signora Alta che canta i saluti.
Lei la Guida dell’Arte che spinge parola
con gli occhi blu sotto i riccioli neri.
Sento la voglia dello sgomentarsi
soprattutto aldilà delle note maschili
loro i frenati loro i padri inespressi.
Poi su nel cielo il sole e il freddo
e più tagli d’aereo che emettono voce
emettono un lamento che non è un richiamo.
PLASMANDO
Ha un corpo la solitudine, no
ma è condizione certa di forza.
È tempo respirato consumando
è spazio trattenuto musicando.
Ed ha un nome ondulato fosforescente.
È un’offerta di specchio alle ombre
all’umana paura o curiosa riservatezza.
È stazione intermedia alta e sospesa
sta tra l’anonimo e il collettivo denso
chiede colore odore segno e distacco.
Io t’assecondo ho mormorato oh Dèa.
T’affido l’ora in cui notte tramonta
e Luna arriva in alto da occidente.
Aere lattiginoso amniotico perenne.
NOTTE
Ed è l’ora di dare un contorno
ed una consistenza di parole
a quei sogni e segnali e fantasmi
della cosa che è sogno notturno.
Messaggi di sé al sé non leggeri
ma alterati e brucianti in piombo fuso
che emigra al fuori da vena di roccia.
Sì, è calore che sale un viso bello
un ricordo degli anni antichizzati
e sequenza di sguardo più parola.
Lui il platonico amor mio aveva
occhi d’anima blu trasparenti
e voce pensierosa un po’ vibrante
a incrociare a confondere il tempo.
VISIONE 8
Manu la bella ragazza
consegnata agli aerei e a internet
Manu l’atletica infelice
che sorride ma soffre negli incontri
Manu che non possiede
memoria del proprio passato
Manu dovrà tornare
lasciando il tailleur-pantalone
a tuniche di tela e coroncine
nell’isola del vento e della luce.
Non ama la parola ma il gesto di danza.
Là fra l’erba ed il mare saprà
che danza è nell’origine e che
parola nacque da suono cadenzato
armonioso scambiato in amore.
Manu alla morte per regressione
scoprirà ch’era viva nel presente.
VISIONE 9
Io che non sono me stessa del tutto
mi trovo a camminare in questa notte
in un paese di artigiani e avverto
il russare vivace dalle finestre.
Succede che ora scopro e vi entro
da abitatore un laboratorio di luce.
Fin dall’infanzia ne ho avuto i richiami.
Mi si sono contratte le falangi
In quel mio maneggiare le fiamme.
Giocavo coi colori veri del mondo
nell’inquieta coscienza e mi stancavo.
Ora la luce mi si è identificata
il desiderio si è fatto coscienza.
Potrò vestire di bianco i miei passi.
La mia morte avverrà dentro l’azzurro.
TERRAMARE
Mia terra tonda mia terra profonda
lui il senza-corpo ti circonda e afferra.
Suonando urlando dormendo o lucendo.
Lui il mare aperto ai liquidi tuoi
che assorbe e muta in schiuma leonina.
Voi creta sabbia polvere e mota
dette e chiamate femminilmente.
I grandi o brevi luoghi dell’acqua
detti e chiamati si sa maschilmente.
L’uomo dà nomi secondo mistero
poi resta preso dal sesso e la prole.
Sconosciuti noi siamo a noi stessi.
Sconosciuti ci sono i galattici segni.
BENEMALE
Voi siete vetro voi nei vostri visi
che mi specchia ma lascia vedere e trasparire.
Che mi ferisce poiché spaccato e aguzzo.
Liquido vetro o compatto diamantizzato.
Voi sempre voi nel pianto e nel riso.
Io vi penso e vi incontro aldilà di quel vetro.
Il vostro corpo aldilà di quel metro.
Quando spinta da gomiti sobbalzo.
Vorrei gestire il contatto a modo mio.
Possessiva e repressa indurita nell’unghia.
Sento il polso che trema se il palmo
s’apre nel vuoto a disegnare una carezza.
CANTO IMPROVVISO
E gli occhi unica cosa sua a vedersi grande.
Nulla sfuggiva loro ma sfuggì a lei l’amore
l’identità la vita sana e accoglimento a scuola.
Era sapete un luì di donna con sigaretta.
Lei nata non si sa da chi e in attesa perenne.
Lei ch’ebbe più famiglie e più nomi facendo servizi.
Lei con sviluppata parola per naturale apprendimento.
Lei bionda e aggraziata e critica e veloce.
Lei accolta con condiscendenza in istituti sociali.
Lei ch’è morta oramai proprio a novembre.
Lei da poter trasfigurare in presenza felice.
La nullità creatrice che vince chiarezza coatta.
GLI INTERROGATIVI
Che cos’è questo alto cantato dolore?
È il contatto di elastiche fasce e magnete
che trattengono e vietano fuga e conforto.
Vivere devi tu vivere devo io a comando.
Oh la rinuncia si è un piacere dolce
e il piacere d’amore vero pianto.
Sono seme sei seme fiato e stella.
Ecco perché un rifugio mai non basta.
Ecco perché non v’è amicizia certa.
Siamo attratti e respinti e il vero è falso.
Una gattona a tigre ho visto al naso punta
da lui topino bianco amico aguzzo e rosa.
Da Il sentimento della storia, Quaderni di Novecento Poesia, 2006
È ANCORA IL TEMPO DI ANNA
(dal suggerimento di una giovane amica)
Questi che sono fatti di regolare guerra
vedono me ed altre creature sbocciare.
Andiamo verso i quindici anni
e cresce il corpo si allunga lo sguardo.
Le strade intorno a noi son popolate
ma solo fino all’ ora del «coprifuoco».
A scuola viene letto il bollettino delle battaglie
e si finge entusiasmo anche se è senza vittorie.
Quindi si impara a esaltare fuori il fascismo
e al nostro interno nella zona che conta
si impara che gli uomini possono morire
anche senza la negativa vittoria dei violenti.
Solo perché serve usarli come quantità.
C’è in giro un nemico ora nell’ ultimo anno
dell’ occupazione del mio del nostro suolo.
Il suolo di Firenze che amo io non patriottica
di amore viscerale necessario distratto.
L’ unico amore che può spiegare se stesso.
Il suolo che amiamo e che per estensione
ci conduce ad amare terre limitrofe estese.
Terre di lingua «una» innestata su codici
antichi e non caduchi di scambio dialettale.
Terre di lingua ironicamente dominante
perché dantesca perché emanante da poesia.
C’ è in giro un nemico comune che veste
divisa e accessori di panno e di metallo forti.
Nazista viene chiamato o «esse - esse».
E altri militarmente dinoccolati con nappa
che servili lo portano a snidare i traditori.
Traditori di una visione che consiste
in un mondo costituito da assurde purezze.
Quelle di un popolo globale disinterrato.
Repubblichini i secondi sono chiamati.
E noi i più poveri assistiamo stupefatti
affaticati dall’ oppressione e il cibo scarso.
MA ANCORA IO NON SO
NOI NON SAPPIAMO DI ANNA FRANK
Dentro al negozio di fornaio nella piazzetta
lei la Signora dai capelli mossi e raccolti
dolce negli occhi grandi e con labbra carnose
parla di suo marito condotto in Germania
e di altri parenti rapiti scomparsi e si sa
ma con indifferenza cordiale e timorosa
che quasi sempre si tratta di famiglie ebree.
Una bambina forte e bionda che mi assomiglia
ha vari fratelli ed insieme abbiamo giocato.
Non la vedremo non li rivedremo più così
da un giorno all’ altro e gli adulti ancora
maggiormente andranno mormorando
degli ebrei e della loro persecuzione.
MA ANCORA IO NON SO
NOI NON SAPPIAMO DI ANNA FRANK
E’ lontano oramai quel dieci giugno del 1940
in cui l’ Italia sfidò il mondo non nazifascista.
Viene l’ estate del 1944 con l’ entrata in città
dei partigiani che guerreggiano sull’ Arno
e poi intorno al Mugnone due piccoli fiumi.
Ma il fischio delle pallottole a me vicino
e i morti hanno la stessa consistenza nera
di quelli conosciuti dalle grandi città d’Europa.
Dell’ Europa dell’ est e di quella dell’ ovest.
E passa ancora un anno e si arresta la guerra.
Vuoto di cittadini ebrei. Crisi di dignità.
Ragazze ora si danno per la sola cioccolata
ai cosiddetti soldati alleati e liberatori.
Donne si danno anche per amore attratte
dalla musica allegra e dall’ odore di libertà.
Sono gelosa siam gelosi noi di questi tempi
che ai giovanissimi svelano gioco e tenzone.
D’ estate a far dibattito nei giardini dei Circoli
fra laici cattolici azionisti e socialcomunisti
su come governare su come gestire convivenza.
Politica era questa e non è vero che fu odio.
Fu ansia grande ansia nel cuore dei più.
Per la storia come ora si è imparato a fare
questa passione conta e non la malizia dei meno.
Scivolò il tempo e avemmo scontri per l’ ordine
così come avemmo veramente assurde censure
e il reggipetto di attrici sul manifesto fu coperto.
L’ attività sindacale di sinistra quella trainante
fu punita con disinvolti e atroci licenziamenti.
Vinse la vita e ci assestammo su una certa
conciliazione partitica e una certa ricchezza
che fu solo liberazione dalla miseria diffusa.
COMINCIAMO A SAPERE DI ANNA FRANK
Assurgesti tu ragazzina a simbolo ma quale.
Tutto ciò che è vitale e incontaminato deve
la sua affermazione alla fortuna o al fato.
Chi invade spazio e tempo è mortale e corrotto.
Una sorta di grazia necessitante ti ha protetto
nel tuo lungo soffrire nel tuo breve passare
perché tu divenissi corrente e luce che guida.
Intanto qua nel nostro Paese posto verso sud
attraverso maligne strategie di cui mai
conosceremo gli artefici infernali sacerdotali
cominciava la rabbia sanguigna del brigatismo.
Di contro chi era in età da volontario ribelle
visse la lunga lotta culturale del sessantotto.
Visse l’ utopico autunno caldo del sessantanove.
SEMPRE PIU’ NOI SAPPIAMO DI ANNA FRANK
Anni ed anni fino all’ estremo avvento tecnologico.
Fino allo sbiadirsi di qualunque odorante bandiera.
Fino al confondersi ambiguo di povertà e possesso.
Oh grande male la caduta di simili confini!
E’ fuoco che non brucia è terra che non profuma.
Acqua che non allaga o spegne ed aria infine
come se rifiutasse non vista i suoi componenti.
Infatti abbiamo la conquista del buco nell’ ozono.
ORA CHIEDIAMO
LA SALVEZZA A TE ANNA FRANK
E’ nata la presenza distruttiva del kamikaze.
E’ stata ammessa con cinismo dai Cesari attuali
la somiglianza il gemellaggio fra la guerra e la pace.
Noi siamo attoniti e fortemente ti pensiamo.
Bisogna d’ ora in poi che siano resi silenziosi
il tuo ricordo e il tuo nome e tu lasciata nella
tua pietra mitica al sole al vento alla pioggia.
Tu sei per noi e rimani fonte e adolescenza.
Tu sei e rimani attesa senza tensione né fine.
ANNA E’ ANIMA
PARLA LA MIA AMICA ANTIGONE
Io a volte penso che tutto sia derivato
dalla tristezza e dalla gloria che il mio nome
da un tempo memore e lontano va significando.
Penso che in questi giorni decadenti inquieti
ci sia bisogno di nuove ardite femminili follie.
Ho un Fratello che sdegno e ribellione han distrutto.
Si è macchiato del sangue di famiglia in una lotta
che lo ha visto aggredire le alte Sedi del Paese.
Ha osato di eriger la giustizia fino al sacro
ha rischiato e perduto se stesso per passione.
Dignità umana e fedeltà alla parola data
Per lui son divenuti unico senso al vivere.
«Proibito uccidere ed onta sul vendicatore».
Così si impose la condanna del Grande Funzionario
che rappresenta lo Stato e la sua Religione.
Io protestai a gran voce e lo derisi negando
la sua decisione nell’ Aula del giudizio sui morti.
Per cui nelle peggiori carceri sono ora reclusa.
Perché Loro non frenano anziché alimentare
la condotta di bassa potenza di falsità irridente?
Perché intervengono quando solo e confuso
un giovane si immerge nella via della violenza?
Io non di fronte alla Chiesa ma alla Fede
li tengo responsabili di angosce e lo grido.
Ho una Sorella dolce che invita alla rinuncia.
Siamo progenie di un Uomo forte e fiero
segnato orribilmente da sventure e darò voce
ai vili che sanno solamente sempre tacere
o gridare in maniera scomposta senza rischio.
E neanche voglio solamente parlare ma fare.
È come spinta fossi dai fiati che non presenti
non umani parlano d’altre misure d’altri sguardi
sul faticoso e avventuroso nostro passare.
Essendo donna mi è più facile il maledire
le condotte ambigue che imporne il mutamento.
Resterò qui e sapendo che voi contemporanei
non avreste il coraggio di portarmi alla morte
se il codice non offre precise prescrizioni
mi lascerò dico morire di fame o di veleno
o di vene recise per elevarmi sopra il tempo.
STOP ALL’ALIENAZIONE
(parafrasando «Stop alla guerra» di F. Brugnaro con i versi «Non abbiate paura che sia tardi»)
Non abbiate paura che sia presto.
Non parlate mai più solamente
per convinzione e per decoro.
L’indifferenza e il sospetto
si stanno inoculando ed invadono
i gesti dell’uomo
il suo pensare e sentire.
Non abbiate paura che sia presto.
L’esasperato culto del potere
sta regalando false libertà
compra ai mercati altamente manageriali
violenti e mascherati
le nostre potenzialità di vita.
L’analisi creativa nasce abortita.
Non abbiate paura che sia presto.
Sconfiggete la nuova pigrizia.
Solo un fare alienato si incontra
un asmatico vivere fra noi
e dichiarati esorcismi di morte.
Non abbiate paura che sia presto.
Date voce all’impulso dell’innocenza
ed entrate con nuda parola
con lo sguardo diretto
nei luoghi del gastigo del dolore
della sana ignoranza.
Da Agli amici di Villa Ulivella (piano secondo “corsia chirurgica) Collana La Voce, 2007
Si sa che la luce mancò
si sa che il suolo fu vanificato.
E quando riapparvero
gli aspetti del mondo?
Minime le mie membra
timore dei sentieri da battere.
Come il cielo mi cullasse
e fosse il mio avvenire.
Il nostro cielo amici.
Io lo so alati che voi ed io
lo so che tutti gli altri come noi
hanno dolce dominio.
Voce di canto che produce
e spande bonarie correnti.
Sim dunque percepibili non visibili.
E voi vorreste ora assimilarmi
totalmente voi vorreste rapirmi.
Distruggere il mio contenitore invischiante.
Celesti onnipresenti alati
io sono la straniera terrestre
che chiese di rimanere agli amici
ed ho un’altra forte preghiera.
Non lasciatemi mai a galleggiare
nello stagno di aria fumosa.
Dove i sensi non sono vivaci
e l’anima non è ancora completa.
In cielo o in terra vorrei
essere una vera identità.
Da Dopo la terra, Passigli, 2012
CRISI E SUCCESSO
E fu la folla folla in ascolto
furono i fiori e le tensioni intorno.
Due musicanti assorti occhi di pace.
Lei in motivi rotondi ansia vocale
di quelle che partendo da un grido
il grido d’uomo lupo di luna
cercano vie del suono e del passo.
Forte colore e odore d’amicizia.
Che esiste dunque ma certo respinge
assolutizzazioni e pretese poiché
sostanzialmente è respiro e luce.
È vento e nostalgia contro possesso.
RINASCERE
Sì vi sento io vi sento vi sento
ora sì che vi posso sentire
anche se chioma d’albero è vostro livello.
Porto in ciascun orecchio un gioiellino
ch’è come un uovo o meno di passerotto.
E ancora vivo nella folla udente.
Nel continente disuguale e denso.
Nel mondo delle guerre e del terrore.
Sì vi ascolto ed intanto riscopro
il segno pigolante e gorgogliante
d’ogni uscita all’esterno d’ogni sboccio.
VISIONE 10
Tu che scendi dai ghiacci e dal granito
ed hai l’umida paura dei cervi.
Tu che conosci i vicoli e le insidie
e che guardi in maniera diretta alla luce.
Tu che sovrasti per slancio e energia
e che tendi a inchinarti per carezze.
Tu che dentro sei scossa dal pianto e dal riso
e aspetti l’ora e il modo che non scuota altri.
Tu che misuri la quantità degli affetti
per essere capace di prolungata fedeltà.
Tu che rispondi ai venti di chiamata
e nello struggimento nell’amore trasfigurato
segui folle invisibili con adesione cantante.
IN AUTOMOBILE
Stupiti in corsa a notte fra i lampioni
che spaccano autostrade in distacco.
È che si vive qui fra corde tese.
Nel buio respirano folle in silenzio
e i motori in fracasso errato e pazzo.
Un filo rosso taglia intero il melange
e sono ritmi andini noti ostinati.
Certi incisivi e lenti in mettere e levare.
Pestano il ventre colpi di scimitarra
Che arrivano tra i bagliori ridenti
e carezzano poi le interne pareti di sangue.
Resta negata irrisa ogni autoappartenenza.
Batte la mente battono le dita ed intanto la vita
lega per affinità i corpi e le identità di anima.
PARTO DA PAGINA TRE
E ritornammo al caos
alla maternità d’origine.
Maternità della mia terra
che partorì espellendo
l’oceano a impulsi
a onde ricorrenti
ad alti getti ricorrendo
le doglie e il desiderio.
Un infinito tempo poi trascorse
e avemmo il terremoto cristico.
Andò confuso il segno-morte
con ogni cosa di tatto e di luce
che contenesse il gusto e gli odori.
Sono o sarò? Pensammo attoniti.
Fratelli dei miei giorni io dico
amore è che decide incide recide.
Noi stessi e il corpo del tempo.
VISIONE 12
Ci fu indicato il Lago come un ritiro.
Stanchi d’essere in due con crescita esponenziale
stanchi di avere ormai una dozzina di voci
e sguardi e gesti e passi di presenza forte
da offrire al mondo sapendo della sua distrazione
andammo ben contenti verso le acque circolari.
A scoprire che il verde della ondulata superficie
era frutto d’intesa con l’erba e con la terra.
Lì piangemmo con senso di ristoro ed aggiungemmo
a scroscio sopra il viso le manciate di liquido lagoso.
Non cercammo capanne. Non tetto non parete.
A sfida degli eventi d’atmosfera ci adagiammo.
Nella fusione dell’amore ritornammo due.
IL BUON TORNADO
Lento per la sua forza il vento abbatte
a lungo a lungo inesorabilmente.
La tempesta è paziente ed è insistente.
Acqua di nube si rovescia annunciatasi prima.
Il tuono il lampo il caricarsi dell’aria
il riempirsi di umore bagnato dello spazio.
La natura è creatura intensa e multiforme.
E che urli e che pianga se ridicolo è
chiederle solamente le carezze.
Evento avverso vita ci raggiunge
come amico sfidante e confidente.
Amore non si dà che dal corpo non passi
Credo permanga dove? oltre il corpo distrutto.
TUTTO A ROVESCIO
Aspettai che la gioia fosse pungente
arrivasse a far male e ad imporsi
in modo che la carne ne venisse confusa.
Non i piccoli mali dell’abitudine sociale
ma un farsi beffa dei sintomi consolidati
e un dover manifestare i miagolii
di sconcertato senso dell’accrescimento.
Decado e sento che si tende la muscolatura.
Avanzo verso il rientro al cuore della terra
e irriverente gioco a tirare le pietre.
I sassi del sentiero aspro liberatorio
di aria carezzante e di luce pervinca.
Metamorfosi io chiamo il personaggio-amore
che mi accompagna e mi accompagnerà.
APPENDICE
Ma al centro e in diffusione
sempre un qualcosa una presenza
lattea elegante materna.
Ha offerte e ha gesti ridenti
penetra nei miei piccoli deserti
e l’acqua subito sgorga e i pesci
vanno a mettersi sopra le braci.
Il suo pensiero è solido e fermo
il suo sentire è intenso
e libera gocce di sangue.
L’anima e il corpo in lei commisurati.
Qualcosa una presenza si diceva.
Una creatura di
massima e marginale nobiltà
che è fragile e che vibra
per assoluta purezza.
TESTAMENTO
Ti prego tu che sei l’anima altra
lascia ch’io adagi su di te la mia.
Lascia che inietti con fili di vento
la silenziosa e acuta energia della vita.
so che si può esiliarsi e restare.
So che c’è stato un prima del durante
so che sarà composta l’unità col dopo.
Tre dunque vedo i respiri del tempo
tre le scansioni-spazio di un uomo.
Lasciati anima altra incrociare da me
dammi conferma intanto che coscienza dura.
IL RITORNO
Da dove vieni amica?
Io vengo dalla morte.
Che aspetto aveva dimmi.
Lei non si lascia vedere.
Ma avrà mostrato dei colori.
Solo sprazzi abbaglianti.
Avrà emanato degli odori.
Erano acri ma concilianti.
Voglio sapere di suoni e vibrati.
Entrava con malizia felinamente
dentro i rumori del quotidiano.
T’avrà guardata almeno.
Da ogni lato m’ha fotografata
con insistenza quell’ombra.
Ammaliata ne sono rimasta.
LA NATURA E DIO
Eluana è sola con chiunque la guarda.
Eluana è sola con chiunque la pensa.
È all’interno di noi ma irraggiungibile.
E viene dalla vita la vita che so.
Nei pressi della morte morte che non so.
Ondeggia lei lunga foglia di canna
su un confine sospeso ed ineffabile.
È delicata e non voglio sollecitarla
tirarla io al di qua per le mani, no.
Spingerla oltre? Anche ciò non vorrei.
Qual’ è il richiamo che domina allora?
Con lei ridurre i respiri al silenzio.
Fare sgomenta e fiera testimonianza
ad una barca interamente bianca che
comincia a scivolare via fra l’acqua e l’aria.
L’ora è venuta e il tempo non è nostra proprietà.
Siamo impotenti ed umili saremo.